giovedì 12 gennaio 2012

Capitolo LXX - La ricostruzione dei puzzle

La sala da pranzo di Bartlebooth in pratica non serve ormai più. È una stanza rettangolare e severa, dal pavimento scuro, con alte tende di velluto goffrato e una grande tavola di palissandro coperta da una tovaglia di lino damascato. Sulla lunga credenza in fondo alla stanza sono posate otto scatole cilindriche che portano tutte l'effigie di re Faruk.
Mentre, sul finire del millenovecentotrentasette, poco prima d'iniziare il suo lungo giro dell'Africa, si trovava a Capo San Vincenzo, nel sud del Portogallo, Bartlebooth conobbe un importatore di Lisbona il quale, saputo che l'inglese aveva l'intenzione di recarsi prossimamente a Alessandria, gli affidò uno scaldapiedi elettrico pregandolo vivamente di consegnarlo al suo corrispondente egiziano, un certo Farid Abu Talif. Bartlebooth annotò con cura le referenze del mercante sulla sua agenda; quando nella tarda primavera 1938 arrivò in Egitto, s'informò su quella degna persona e gli fece pervenire il regalo del portoghese. Benché la temperatura fosse già anche troppo clemente perché il bisogno di uno scaldapiedi elettrico si facesse realmente sentire, Farid Abu Talif fu così contento del dono che chiese a Bartlebooth di recapitare al portoghese, a titolo di perizia, otto scatole di caffè che aveva trattato con una tecnica chiamata "ionizzazione", tecnica destinata, spiegò, a prolungarne quasi indefinitamente il sapore. Bartlebooth ebbe un bel precisare che non avrebbe certamente più avuto l'occasione di rivedere l'importatore per qualcosa come diciassette anni, l'egiziano s'incaponì, aggiungendo che l'esperimento sarebbe risultato ancora più probante se, dopo tutto quel tempo, il caffè avesse conservato anche solo un pò del suo aroma.
Negli anni successivi quelle scatole furono oggetto di grane senza fine. A ogni passaggio di frontiera, Bartlebooth e Smautf dovevano aprire le scatole e permettere ai doganieri sospettosi di annusare, assaggiare in punta di lingua e qualche volta farsi perfino un caffè per rendersi ben conto che non si trattasse di un nuovo tipo di droga. Sul finire del millenovecentoquarantatré, le scatole, piuttosto ammaccate, si ritrovarono vuote, ma Smautf insistette perché Bartlebooth non le buttasse via; se ne servì per riporre spiccioli vari o le conchiglie rare che gli capitava di raccogliere sulle spiagge, e quando rientrarono in Francia, come ricordo del loro lungo viaggio, le mise sulla credenza della sala da pranzo dove Bartlebooth le lasciò.
 
 

Ogni puzzle di Winckler era per Bartlebooth un'avventura nuova, unica, irripetibile. Ogni volta, dopo avere rotto i sigilli che chiudevano la scatola nera della signora Hourcade e sparpagliato sul panno della sua tavola, sotto la luce senz'ombra della lampada scialitica, i settecentocinquanta pezzetti di legno che era diventato il suo acquerello, aveva la sensazione che tutta l'esperienza accumulata in cinque, dieci o quindici anni non gli sarebbe servita a niente, che avrebbe avuto come sempre a che fare con delle complicazioni, delle difficoltà assolutamente insospettabili.
Ogni volta si riprometteva di procedere con disciplina e con metodo, di non buttarsi sui pezzi, di non cercare di ritrovare immediatamente nel suo acquerello spezzettato questo o quell'elemento di cui credeva di serbare un ricordo intatto: no, questa volta non si sarebbe lasciato travolgere dalla passione, dal sogno o dall'impazienza, ma avrebbe costruito il suo puzzle con rigore cartesiano: dividere i problemi per risolverli meglio, affrontarli nell'ordine, eliminare le combinazioni improbabili, eseguire le mosse come un giocatore di scacchi che edifica piano la sua strategia ineluttabile e irrimediabile: avrebbe cominciato col mettere tutti i pezzi al diritto, poi ne avrebbe cavato tutti quelli che presentassero un bordo rettilineo componendo la cornice del puzzle. Poi avrebbe esaminato tutti gli altri, a uno a uno, sistematicamente, prendendoli in mano, rigirandoli parecchie volte in tutti i versi; avrebbe isolato tutti quelli sui quali fosse più chiaramente visibile un disegno o un particolare, avrebbe classificato i restanti secondo il colore, e all'interno di ogni colore secondo la sfumatura, e ancor prima di avere iniziato a incastrare i pezzi centrali, avrebbe così già superato trequarti dei tranelli preparati da Winckler. Il resto sarebbe stato solo questione di pazienza.
Il problema principale era rimanere neutrali, obiettivi, e soprattutto disponibili, e cioè senza alcun pregiudizio. Ma proprio qui Gaspard Winckler tendeva le trappole. Via via che Bartlebooth prendeva confidenza con i pezzetti di legno, cominciava a percepirli secondo un asse privilegiato, come se i pezzi si polarizzassero, si pietrificassero in un modo di percezione che li assimilava, con una irresistibile seduzione, a immagini, forme e figure familiari: un cappello, un pesce, un uccello straordinariamente preciso, con lunga coda, lungo becco ricurvo e gonfio alla base, come ricordava di averne visti in Australia, oppure, appunto, la frastagliatura dell'Australia, o l'Africa, l'Inghilterra, la penisola iberica, lo stivale italiano, eccetera. Gaspard Winckler si sbizzarriva in simili pezzi e come in quei puzzle per bambini di legno spesso, a volte si ritrovava con tutto un serraglio, un pitone, una marmotta e due elefanti perfettamente formati, uno africano (con lunghe orecchie) e l'altro asiatico, oppure un Charlot (bombetta, bastoncino e gambe ad arco), un profilo di Cyrano, uno gnomo, una strega, una donna col cappello a cono, un saxofono, un tavolino di caffè, un pollo arrosto, un astice, una bottiglia di champagne, la ballerina dei pacchetti di Gitanes o l'elmo alato delle Gauloises, una mano, una tibia, un fiore di giglio, vari frutti, o un alfabeto quasi completo con pezzi a forma di J, di K, di L, di M, di W, di Z, di X, di Y e di T.
A volte, tre, quattro, o cinque di quei pezzi s'incastravano con una facilità sconcertante; poi, si bloccava tutto: il pezzo mancante faceva venire in mente a Bartlebooth una specie di India nera cui fosse rimasta attaccata Ceylon (ora, l'acquerello raffigurava precisamente un piccolo porto della costa di Coromandel). Ed era solo parecchie ore dopo, quando non erano parecchi giorni, che Bartlebooth si rendeva conto che il pezzo adeguato non era nero ma grigio piuttosto chiaro - discontinuità di colore che si sarebbe dovuta prevedere se Bartlebooth non si fosse lasciato per così dire trascinare dal suo slancio - e aveva esattamente la forma di quello che fin dall'inizio si era ostinato a chiamare la "perfida Albione", a patto d'imprimere a quella piccola Inghilterra una rotazione di novanta gradi in senso orario. Indubbiamente lo spazio vuoto non somigliava alle Indie più di quanto il pezzo che doveva riempirlo non somigliasse all'Inghilterra; l'importante, in questi casi, era che fintantoché continuava a vedere in questo o quel pezzo un uccello, un ometto, un blasone, un elmo puntuto, un cane la-voce-del-padrone o un Winston Churchill, non poteva certo scoprire come quello stesso pezzo si collegasse agli altri senza essere appunto rovesciato, rigirato, decentrato, desimbolizzato, e in una parola "de-formato".
L'essenziale delle illusioni di Gaspard Winckler si basava su questo principio: obbligare Bartlebooth a investire lo spazio vuoto di forme apparentemente anodine, evidenti, facilmente descrivibili - per esempio un pezzo del quale - qualunque ne fosse peraltro la configurazione, due lati dovevano obbligatoriamente formare tra loro un angolo retto - e nello stesso tempo forzare in un senso completamente diverso la percezione dei pezzi destinati a riempirlo sul serio. Come in quella caricatura di W.E.Hill che raffigura "nello stesso tempo" una giovane donna e una vecchia, l'orecchio, la guancia, la collana della giovane essendo rispettivamente un occhio, il naso e la bocca della vecchia, con la vecchia di profilo in primo piano e la giovane di trequarti schiena inquadrata a mezza spalla, Bartlebooth doveva , per trovare quell'angolo a dire il vero quasi ma non del tutto retto, smettere di considerarlo la punta di un triangolo, e cioè ribaltare la sua percezione, vedere "diversamente" quello che ingannevolmente l'altro gli faceva vedere e, per esempio, scoprire che la pseudo Africa dai riflessi gialli che cincischiava senza sapere dove andava messa occupava esattamente lo spazio che credeva di dover riempire con una specie di quadrifoglio dai toni color malva spenta che cercava dappertutto e non trovava.


La soluzione era evidente, evidente quanto il problema era parso insolubile fino a quando lo aveva risolto, proprio come in una definizione di parole incrociate - la sublime "vecchie e ... nove" dieci lettere,di Robert Scipion, per esempio - si va a cercare chissa dove non c'è quello che è enunciato con grande precisione nella definizione stessa, consistendo in realtà tutto il lavoro nell'operare quello "spostamento" che dà al pezzo, alla definizione, il suo "senso" e rende contemporaneamente fastidiosa e inutile qualsiasi spiegazione. (*)
Nel caso particolare di Bartelbooth, il problema si complicava per il fatto stesso che era l'autore degli acquerelli iniziali. Ne aveva accuratamente distrutto schizzi e minute e non aveva ovviamente fatto fotografie né appunti, ma prima di dipingerli aveva guardato questi paesaggi marini con un'attenzione abbastanza intensa perchè vent'anni dopo gli bastasse leggere sulle brevi note che Gaspard Winckler incollava all'interno della scatola "Isola di Skye, Scozia, marzo 1936" o "Hammamet, Tunisia, febbraio 1938", per fargli venire in mente un marinaio dal maglione giallo con un tom o'shanter sulla testa, o la macchia rossa e oro del vestimento di una donna berbera che lavava la lana in riva al mare, o una nube lontana su una collina, leggera come un uccello: non proprio il ricordo stesso - era infatti più che evidente come quei ricordi fossero esistiti solo per essere acquerelli prima, e puzzle dopo e poi ancora niente - ma ricordi di immagini, di tratti di matita, colpi di gomma, tocchi di pennello.
Quasi tutte le volte Bartlebooth cercava quei segni privilegiati. Ma era illusione volersi appoggiare su loro: talvolta, Gaspard Winckler riusciva a farli sparire; quella macchiolina rossa e gialla, per esempio, la frammentava in una miriade di pezzi da cui il giallo e il rosso parevano inspiegabilmente assenti, fusi, confusi in quei traboccamenti minuscoli, in quegli schizzi quasi microscopici, quelle piccole sbavature di pennello e straccio che l'occhio non era assolutamente in grado di percepire guardando l'insieme del quadro ma che i suoi colpi di sega paziente erano riusciti a esagerare esasperatamente; più spesso, e in modo molto più perfido, come se avesse intuito che quella data forma si era incrostata nella memoria di Bartlebooth, lasciava tale e quale, in un unico pezzo, quella nuvola, quella figura, quella macchia colorata che, nude all'intorno, diventavano inutilizzabili, ritagli uniformi, monocromi, delle quali non si vedeva in via assoluta cosa potesse circondarle.
Le astuzie di Winckler iniziavano con gli orli, molto prima di questi stadi già avanzati. Come nei puzzle classici, i suoi puzzle avevano sottili orli rettilinei e bianchi, e uso e ragione volevano che, come nel gioco del go, proprio dagli orli si cominciasse a giocare.
E' anche vero che un giorno, esattamente come quel giocatore di go che pose la prima pietra proprio al centro del go-ban strabiliando l'avversario abbastanza a lungo da vincerlo, Bartlebooth, preso da un intuizione improvvisa, cominciò uno dei puzzle a partire dal centro - le macchie gialle di un tramonto luccicante sul Pacifico (poco distante da Avalon, Santa Catalina Island, California, novembre 1948) - e quella volta ce la fece in tre giorni invece che in due settimane. Ma in seguito perse quasi un intero mese quando credette di poter rifare il colpo.
La colla azzurra che adoperava Gaspard Winckler a volte usciva un pochino dal foglio bianco intercalato che costituiva il bordo del puzzle, lasciando una frangia azzurrina quasi impercettibile. Per molti anni Bartlebooth usò quella frangia come una specie di garanzia: se due pezzi che gli sembravano perfettamente adattabili presentavano frange che non coincidevano, esitava a farli incastrare; e invece era tentato di accostare due pezzi che, a prima vista, non avrebbero mai dovuto toccarsi, ma le cui frange azzurrine offrivano una continuità perfetta e spesso accadeva che un pò più tardi andassero effettivamente bene così.
Solo quando quell'abitudine era già presa, e sufficientemente radicata perchè il liberarsene diventasse spiacevole, Bartlebooth si rese conto che quei "casi fortunati" potevano benissimo essere a lovo volte trappole, e che l'autore dei puzzle aveva lasciato, su un centinaio di giochi, quella minima traccia a fare da indizio - o esca piuttosto - solo per meglio imbrogliare poi.
Era questa, da parte di Gaspard Winckler, un'astuzia quasi primaria, semplice entrata in argomento. Che due o tre volte agitò Bartlebooth per qualche ora e non ebbe effetti più durevoli. Ma era alquanto tipica dello spirito con cui Gaspard Winckler concepiva i suoi puzzle intendendo suscitare in Bartlebooth uno smarrimento ogni volta rinnovato. I metodi più rigorosi, la schedatura dei settecentocinquanta pezzi, l'impiego di calcolatori o di qualsiasi altro sistema scientifico o oggettivo, non sarebbero certo serviti granchè. Gaspard Winckler aveva evidentemente considerato la fattura dei cinquecento puzzle come un tutto, come un gigantesco puzzle di cinquecento pezzi ogni pezzo del quale fosse stato un puzzle di settecentocinquanta pezzi, ed è chiaro che ciascuno di loro esigeva per la sua soluzione un approccio, uno spirito, un metodo, un sistema diversi.
A volte Bartlebooth risolveva d'istinto, come per esempio quando aveva, senza un motivo apparente, attaccato dal centro; a volte lo faceva per deduzione anche, basandosi sui puzzle precedenti; ma, quasi sempre, ci lavorava tre giorni con l'impressione tenace del perfetto imbecille: i bordi non erano neanche finiti, , quindici piccole Scandinavie accostate fin dall'inizio disegnavano la sagoma scura di un uomo ammantellato che saliva tre gradini di un molo, mezzo girato verso il pittore (Launceston, Tasmania, ottobre 1952), e da parecchie ore non aveva più messo un solo pezzo.
Bartlebooth trovava in quel senso d'impasse, di vicolo cieco, l'essenza stessa della sua passione: una specie di torpore, di rimuginìo, di abbrutimento smorto alla ricerca di qualcosa d'informe di cui riusciva solo a biascicare i contorni: un becco forse adattabile alla piccola ferita concava, una cosa così, un piccolo oggetto giallastro, un pezzettino con denti rotondi, dei piccoli punti arancioni, il pezzo d'Africa, la porzione di costa adriatica, brontolii confusi, rumori di fondo di una fantasticheria maniacale, sterile, infelice.
Talvolta allora, al termine di quelle ore di inerzia malinconica, lo prendevano accessi improvvisi di rabbia terribile, rabbie tremende e inspiegabili quanto, da Riri, quelle di Gaspard Winckler quando faceva la sua partita di jacquet con Morellet. Quell'uomo che, per tutti nello stabile, era il simbolo stesso della flemma britannica, della discrezione, della cortesia, della gentilezza, dell'urbanità più squisita, quell'uomo che nessuno aveva mai udito dire una parola più forte dell'altra, si lasciava allora prendere da furori di una violenza tale che pareva essersela covata dentro per anni. Una sera spaccò in due con un unico pugno un tavolino con il piano di marmo. Un'altra volta, dopo che Smautf aveva commesso l'imprudenza di entrare, come faceva tutte le mattine, con la prima colazione - due uova alla coque, un succo d'arancia, tre toast, un tè con latte, qualche lettera e tre quotidiani: Le Monde, il Times e l'Herald - Bartlebooth sbattè via il vassoio con una forza tale che la teiera, espulsa quasi verticalmente con la velocità di una palla di fucile, fracassò il vetro spesso della lampada scialitica prima di rompersi anch'essa in mille pezzi che ricaddero sul puzzle (Okinawa, Giappone, ottobre 1951). Bartlebooth ci mise otto giorni a recuperare i settecentocinquanta pezzi, che la vernice protettiva di Gaspard Winckler aveva salvato dal tè bollente, e indubbiamente quella crisi di furore non risultò inutile, perchè riordinando i suoi pezzi scoprì finalmente come andavano messi.
Più spesso, per fortuna, al termine di quelle ore di attesa, dopo aver attraversato tutti gli stadi dell'ansia e dell'esasperazione controllate, Bartlebooth raggiungeva una specie di trance, una stasi, una sorta d'inebetimento tutto asiatico, forse analogo a quello che cerca l'arciere: un oblìo profondo del corpo e del bersaglio da colpire, una mente vuota, assolutamente vuota, aperta, disponibile, un'attenzione intatta ma libera di librarsi al di sopra delle vicissitudini dell'esistenza, delle contingenze del puzzle e dei tranelli dell'artigiano. In quei momenti, Bartlebooth vedeva senza guardarli i sottili intagli del legno incastrarsi esattamente uno nell'altro e poteva, prendendo due pezzi a cui non aveva mai fatto caso o che forse aveva giurato per ore non potessero materialmente mai riunirsi, comporli in un amen.
Quella sensazione di grazia durava a volte vari minuti e Bartlebooth aveva allora l'impressione di essere un veggente: percepiva tutto, capiva tutto, avrebbe potuto veder crescere l'erba, il fulmine colpire l'albero, l'erosione modellare le montagne come una piramide lentissimamente consumata dall'ala di un uccello che la sfiora: giustapponeva i pezzi a gran velocità, senza sbagliarsi mai, ritrovando sotto tutti i particolari e gli artifici che intendevano mascherarli, quest'unghiata minuscola, quell'impercettibile filo rosso, quest'altra tacca dagli orli neri che gli avrebbero, in ogni momento, indicato la soluzione se solo avesse avuto occhi per vedere: in pochi attimi, sull'onda di quell'ebbrezza esaltante e sicura, una situazione immobile da ore o da giorni, e della quale non concepiva neanche più lo svolgimento, si modificava da così a così: spazi interi si saldavano di colpo, il cielo e il mare ritrovavano il loro posto, dei tronchi ridiventavano rami, degli uccelli, onde, delle ombre, goemone. (**)
Quegli attimi privilegiati erano rari quanto inebrianti ed effimeri quanto sembravano efficaci. Ben presto Bartlebooth ridiventava un sacco di sabbia, una massa inerte inchiodata al tavolo di lavoro, un ebete dagli occhi spenti, incapaci di vedere, che aspettava per ore senza capire cosa aspettava.
Non aveva né fame né sete, né caldo né freddo; poteva starsene senza dormire più di quaranta ore, senza far altro che prendere a uno a uno i pezzi non ancora riuniti, guardarli, rigirarli e rimetterli giù senza neanche tentare di sistemarli, come se qualsiasi tentativo fosse inesorabilmente votato al fallimento. Una volta rimase seduto 62 ore di fila - dal mercoledì mattina alle otto al venerdì sera alle dieci - davanti a un puzzle incompiuto che raffigurava le lunghe ghiaie di Elsinore : frangia grigia fra un mare grigio e un cielo grigio.
Un'altra volta, nel millenovecentosessantasei, ricompose nelle prime tre ore più di due terzi del puzzle che toccava in quei quindici giorni: la stazioncina balneare di Rippleson, in Florida. Poi, nelle successive due settimane, tentò invano di finirlo: aveva davanti un pezzetto di spiaggia quasi deserto, con un ristorante a un capo della passeggiata e delle rocce di granito all'altro capo; in lontananza, sulla sinistra, tre pescatori caricavano una scialuppa di reti color alga bruna; al centro una donna di una certa età vestita di un abito a pallini e calzata di un cappello da carabiniere di carta, sferruzzava seduta sui ciottoli; accanto a lei, supina sopra un tappeto di fibre vegetali, una ragazzina con una collana di conchiglie mangiava banane seccate; all'estrema destra, un bagnino, vestito di un vecchio battledress, raccoglieva ombrelloni e sdraio; sullo sfondo una vela trapezoidale e due isolotti spezzavano la linea dell'orizzonte. Mancavano un pò di mare ondeggiante e un pezzetto di cielo a pecorelle: duecento pezzi dello stesso azzurro con minuscole variazioni bianche, ciascuno dei quali richiese più di due ore di lavoro prima di trovare il suo posto.
Fu una delle poche volte in cui non gli bastarono due settimane per terminare un puzzle. Generalmente, fra ebbrezze e abbattimenti, esaltazioni e disperazioni, attese febbrili e certezze effimere, il puzzle si completava nei tempi previsti, incamminandosi verso l'ineluttabile fine in cui, risolto ogni problema, restava ormai solo un onesto acquerello, di fattura sempre un pò scolastica, raffigurante un porto di mare. Via via che lo aveva saziato, nella frustrazione o nell'entusiasmo, il suo desiderio si andava spegnendo, lasciandogli come unico esito l'apertura di un'altra scatola nera.

(*) Sarei curioso di vedere il testo originale in francese: il gioco di Parole di Scipion si traduceva originariamente con "nonagenarie", che ha 11 lettere, nella traduzione del testo in italiano invece probabilmente è stato sostituito da "novantenni", che ne ha 10.
(**) Scritto così nella mia edizione italiana BUR del 1991.

2 commenti:

  1. Uff... ce l'ho fatta, sono riuscito a finire di leggerlo. Bello, caspita. Capisco perché ti piaccia così tanto questo libro, direi che in effetti, per quel poco che ti conosco, pare proprio nelle tue corde.
    Si dovrebbero, altresì, fare dei gran complimenti al traduttore, ché mica è facile riadattare un testo non certamente semplice come questo. Le punteggiature, le parentesi più o meno esplicite, le metafore, le goemone (che sarà il plurale di "gomena", dato che si parla di porti? ). Davvero bravo.
    E complimenti a te per la pazienza nel trascriverlo tutto...

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  2. Beh, complimenti anche a te, sei riuscito a leggere un intero capitolo del libro, fino in fondo. Mica poco. Conosco persone che si farebbero frustare, in ginocchio sui ceci, piuttosto.
    E comunque hai ragione, facciamoli una volta tanto i complimenti a chi ha tradotto il testo originale dal francese all'italiano: Dianella Selvatico Estense. Un lavoro paziente e minuzioso che riporta felicemente lo stile molto personale di Perec, per nulla di facile traduzione, e che le valse l'anno successivo, nel 1985, il Premio Monselice per la traduzione.
    E pensare che prima di decidersi a pubblicarlo in Italia, le varie case editrici del tempo ci misero sei anni a decidersi, dal 1978 anno in cui uscì in Francia, al 1984 anno in cui Rizzoli si decise a pubblicarlo (BUR), e lo fece prima di Einaudi, che pure lo aveva fatto tradurre per prima, ma senza pubblicarlo.
    Nel frattempo, Perec era morto, a quarantasei anni, il 3 marzo 1982.

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