martedì 27 dicembre 2011

Percival Bartlebooth

Percival Bartlebooth è uno degli inquilini del condominio di via Simon Crubellier 11, anzi, lo era, perchè al momento in cui è ambientato il romanzo, il 23 giugno 1975, qualche minuto prima delle otto di sera, è appena morto.
Attorno alla storia della sua vita ruota tutto il libro, ma il lettore che si avvicina per la prima volta al romanzo, ne viene messo al corrente in maniera discontinua, frammentata, e solo unendo i vari capitoli che lo riguardano direttamente, con quelli degli altri personaggi che in qualche modo gli sono vicini, si riesce ad avere il quadro completo della sua esistenza. Come fosse un puzzle.

Ma qual'era l'ambizioso progetto che Bartlebooth aveva immaginato per la sua vita?

"Immaginiamo un uomo la cui fortuna fosse pari solo all’indifferenza verso quello che generalmente la fortuna permette, e il cui desiderio fosse, con molto più orgoglio, cogliere, descrivere, esaurire, non la totalità del mondo – progetto che il suo stesso enunciato è sufficiente a mandare in rovina – ma un frammento costituito di quest’ultimo: di fronte all’inestricabile incoerenza del mondo, si tratterà allora di portare fino in fondo un programma, ristretto, sì, ma intero, intatto, irriducibile.
Bartlebooth, in altre parole, decise un giorno di organizzare tutta la sua vita intorno a un progetto unico la cui necessità arbitraria non avrebbe avuto uno scopo diverso da sé.
L’idea gli venne quando aveva vent’anni. Fu sulle prime un’idea vaga, una domanda che si poneva: cosa fare?, una risposta che si abbozzava: niente. Il denaro, il potere, l’arte, le donne, non interessavano Bartlebooth. Come neanche la scienza, né il gioco. Tutt’al più le cravatte e i cavalli o, se preferite, imprecisa ma palpitante sotto queste futili apparenze (anche se migliaia di persone ordinano efficacemente la loro vita intorno alle cravatte e in numero ancora superiore intorno ai cavalli della domenica), una certa idea di perfezione.
Che si sviluppò nei mesi, negli anni a seguire, articolandosi intorno a tre principi direttivi:


Il primo fu di ordine morale: non si sarebbe trattato di un’impresa o di un record, né di una cima da scalare o di un abisso marino da raggiungere. Quello che Bartlebooth avrebbe fatto non sarebbe stato spettacolare né eroico; sarebbe stato semplicemente, discretamente, un progetto, difficile certo, ma non irrealizzabile, controllato da cima a fondo e che, in compenso, avrebbe dominato, in ogni suo particolare, la vita di colui che vi si sarebbe dedicato.


Il secondo fu di ordine logico: senza alcun ricorso al caso, l’iniziativa avrebbe fatto funzionare tempo e spazio come coordinate astratte in cui si sarebbero iscritti con una ricorrenza ineluttabile degli avvenimenti identici inesorabilmente prodotti in una certa data, in un certo luogo.


Il terzo, infine, fu di ordine estetico: inutile, essendo proprio la gratuità l’unica garanzia del rigore, il progetto si sarebbe distrutto da solo nel corso stesso del suo divenire; la sua perfezione sarebbe stata circolare: una successione di avvenimenti che, concatenandosi, si sarebbe annullata: partito da zero, Bartlebooth allo zero sarebbe tornato, attraverso trasformazioni precise di oggetti finiti.


Così si organizzò in concreto un programma che possiamo in succinto enunciare così:
Per dieci anni, dal 1925 al 1935, Bartlebooth si sarebbe iniziato all’arte dell’acquerello.
Per vent’anni, dal 1935 al 1955, avrebbe viaggiato in lungo e in largo, dipingendo, in ragione di un acquerello ogni quindici giorni, cinquecento marine dello stesso formato (65 x 50, o 50 x 64 standard) raffiguranti porti di mare. Appena finita, ciascuna di quelle marine sarebbe stata spedita a un artigiano specializzato (Gaspard Winckler) che incollandola su un foglio di legno sottile l’avrebbe tagliata in un puzzle di settecentocinquanta pezzi.
Per vent’anni, dal 1955 al 1975, Bartlebooth, tornato in Francia, avrebbe ricomposto, nell’ordine, i puzzle così preparati, in ragione di nuovo, di un puzzle ogni quindici giorni. Via via che i puzzle sarebbero stati ricostruiti, le marine sarebbero state ristrutturate in modo da poterle scollare dal loro supporto, trasportare nel luogo stesso in cui – vent’anni prima – erano state dipinte, e immerse in una soluzione solvente da cui non sarebbe riemerso che un foglio di carta Whatman, vergine e intatto.


Così, non sarebbe rimasta traccia alcuna di quella operazione che, per cinquant’anni, aveva completamente mobilitato il suo autore".


Mi sono sempre chiesto, se mi ci fossi trovato io al suo posto, che cosa avrei deciso di fare.
Confesso che quando lessi il libro per la prima volta, diciamo più o meno 25 anni fa, rimasi veramente affascinato dal suo progetto e la tentazione di imitarlo in qualche modo fu grande; d'altra parte avevo ancora l'età e l'incoscenza per farlo, ... mancavano le possibilità economiche per permettermi di dedicarmi ad una operazione del genere senza dover lavorare.
A volte ci penso, a quest'ora sarei arrivato grosso modo ad aver dipinto gran parte dei miei acquerelli in giro per il mondo, per poi, terminati anche gli ultimi, accingermi a rientrare a casa per iniziare la ricostruzione dei 500 puzzle.


venerdì 23 dicembre 2011

Pezzi di puzzle

Facciamo un passo indietro, andiamo al preambolo del romanzo, dove troviamo la seguente citazione:

"L'occhio segue le vie che nell'opera gli 
sono state disposte"  
Paul Klee, Padagogisches Skizzenbuch

Non si può continuare a descrivere cosa viene raccontato in questo libro senza prima definire che cosa è un puzzle, o meglio, che cosa è un puzzle di legno tagliato a mano.

"Nella maggior parte dei casi - per tutti i puzzle di cartone in particolare - i puzzle sono fatti a macchina e i loro contorni non seguono necessità alcuna: una pressa tranciante regolata secondo un disegno immutabile taglia i fogli di cartone sempre nel medesimo modo; il vero amatore respinge questo tipo di puzzle, non tanto perchè sono di cartone invece che di legno, né perché sulla confezione è riprodotto il modello, ma soprattutto perché con questo sistema si viene a perdere la specificità stessa del puzzle; poco importa all'occorrenza, contrariamente a un'idea fortemente ancorata nella mente del pubblico, che l'immagine iniziale si consideri facile (una scena di genere alla Vermeer per esempio, o la fotografia a colori di un castello austriaco) oppure difficile (un Jackson Pollock, un Pissarro o - misero paradosso - un puzzle bianco): non nel soggetto del quadro o nella tecnica del pittore sta la difficoltà del puzzle, ma nella sapienza del taglio, e un taglio aleatorio produrrà necessariamente una difficoltà aleatoria, oscillante fra una facilità estrema per i bordi, i particolari, le macchie di luce, gli oggetti ben definiti, le pennellate, le transizioni, e una difficoltà fastidiosa per tutto il resto: il cielo senza nuvole, la sabbia, i prati, i coltivi, le zone d'ombra, eccetera.
Nei puzzle del genere i pezzi si dividono in alcune classi maggiori fra cui le più note sono:


e poi riformati i bordi, messi a posto i particolari - la tavola con la tovaglia rossa a frange gialle molto chiare, quasi bianche, che regge un leggìo con un libro aperto, la ricca cornice dello specchio, il liuto, l'abito rosso della donna - e le grandi masse degli sfondi divise a blocchi seguendone le tonalità di grigio, marrone, bianco o azzurro cielo - la soluzione del puzzle consisterà solo nel tentare via via tutte le combinazioni possibili.


L'arte del puzzle inizia con i puzzle di legno tagliati a mano quando colui che li fabbrica comincia a porsi tutti i problemi che il giocatore dovrà risolvere, quando, invece di lasciare che il caso imbrogli le piste, vuole sostituirgli l'astuzia, la trappola, l'illusione ..."

giovedì 22 dicembre 2011

Rue Simon-Crubellier.

Allora iniziamo da qua, per le scale, fra il terzo e il quarto piano di questo edificio in rue Simon-Crubellier, numero 11. A Parigi.
Una donna sui quarant'anni sta salendo le scale con un foglio di carta in mano, su cui sono state schizzate tre piante: "la prima, in alto a destra, permette di localizzare l'edificio, pressapoco a metà di rue Simon-Crubellier che divide obliquamente il quadrilatero formato, nel quartiere de la Plan Monceau, XVII arrondissenment, dalle vie Médéric, Jadin, De Chazelles e Léon Jost";

Ma dove si trova esattamente questa strada?
E' semplice, basta prendere una piantina di Parigi, dovrebbe essere più o meno qui:


Anzi, dovrebbe essere esattamente qui:


Oppure avvalendosi di Google Maps, ma non è che cambi molto:



Niente da fare, non riesco a trovarla.
Potrei farmi aiutare da questi tipi australiani che sono andati fino a Parigi per cercarla:

Searching for rue Simon-Crubellier



 

Macchè, niente, non si trova.

martedì 20 dicembre 2011

La vita istruzioni per l'uso

Per farla breve, questo è il libro che io ho in assoluto amato di più.


Il Romanzo, o forse sarebbe meglio dire "I Romanzi" (come è specificato nel sottotitolo), sono strutturati in modo tale che ogni capitolo corrisponda ad una stanza di un immobile parigino, sito in Rue Simon-Crubellier 11, descritto il 23 giugno 1975 «qualche minuto prima delle otto di sera».
Sono cinque piani in tutto, più cantine, scale, etc., ed ogni ambiente riporta l'accurata descrizione degli arredi e delle vite di chi ci ha abitato. Lo schema dell'edificio può essere esemplificato con un "biquadrato latino" 10x10, dove ogni casella corrisponde ad una stanza ed a un capitolo del libro.
Per scegliere l'ordine in cui descrivere l'intero schema, capitolo per capitolo, stanza per stanza, Perec decide di muoversi avanzando con la mossa del cavallo, la stessa utilizzata nel gioco degli scacchi, seguendo un ordine tale che consenta di toccare successivamente tutte le caselle della scacchiera, senza toccare due volte la stessa.
Tutte, tranne una.

Ecco lo schema che riproduce quanto appena descritto:


 

Questa, assieme al vincolo di far comparire in ogni capitolo tutta una serie di categorie tematiche, fa parte di un elenco di regole che l'autore si è autoimposto, abitudine alimentata anche dalla frequentazione dell'OULIPO di cui era membro.



domenica 18 dicembre 2011

Piantina dell'orto


Oh, allora:
1) Asparago (spèrz)
2) ..., radicchio (radècc), strigolo (strìgul)
3)
4) Insalata (insalè)
5) ..., prezzemolo (pidarsùl)
6) Fragola (frègula)
7) Radicchio (radècc)
8) Finocchio (fnòcc), ...
9) Fava (fèva)
10)
11)
12) Cardo (chèrd)
13) Cavolo (chèval)
14)
15) Spinacio (spinaz)

giovedì 15 dicembre 2011

L'orto di mio padre

Mio padre è una persona anziana.
Passa gran parte della giornata a tenere in ordine il giardino di casa, e a coltivare un piccolo orticello con cui rifornisce la sua e la mia tavola.
E' il suo modo di rendersi utile, ogni tanto mi fa trovare in garage un caspo di insalata, del radicchio, una verza, ... insomma la verdura di stagione che la terra gli restituisce in cambio del suo paziente lavoro.
Un giorno, prima o poi, dovrò occuparmene io, anche se non ho la più pallida idea del come e dove incominciare, così comincio da qui, a prendere qualche appunto.
Oggi è il 15 novembre: l'ho visto vangare il pezzetto di terra dove a primavera nascono gli asparagi.
O forse bisognerebbe dire rinascono, perchè ho scoperto che non si ripiantano tutti gli anni.
Poi ho notato che ci sono due piccole parti dell'orto che sono state protette con dei teli.
In una lo so che cosa c'è sotto, perchè ho sentito mio padre gridare al gatto mentre gli girava attorno con l'intento di infilarcisi dentro: "làsa stè chi pìdarsùl" che, per i non romagnoli, sarebbe il prezzemolo.
Cosa c'è nell'altra lo scoprirò presto, durante la prossima ispezione.
Gatto permettendo.

lunedì 12 dicembre 2011

i dì protrar torpidi

Il nome del blog è preso a prestito da uno splendido bifronte di Anacleto Bendazzi, contenuto in quel capolavoro del contorsionismo di giochi verbali che sono "Le Bizzarrie letterarie" (1951).
La foto pubblicata sotto è riferita all'antologia ristampata nel 1996, curata da Stefano Bartezzaghi dal titolo "Bazzecole andanti", anagramma di Anacleto Bendazzi.


Don Bendazzi (1883-1982) era un eccentrico sacerdote ravennate, cultore di materie linguistiche, a cui gli incarichi strettamente pastorali non erano molto graditi, e più sgradito di tutti gli risultava di amministrare la confessione. Il suo biografo Franco Gabici racconta che cosa successe al giovane don Bendazzi la prima volta che provò a confessare i fedeli: fu preso dal panico e dovette abbandonare precipitosamente la chiesa, dopo aver lasciato al parroco un biglietto che diceva "Vado via".
Sulla sua vita si narrano diversi racconti, che creano attorno al suo personaggio una sorta di leggenda; negli ultimi anni di guerra c'era il timore che il nemico bombardasse le città con caramelle avvelenate, e i bambini avevano la proibizione assoluta di raccogliere caramelle dalla strada. Don Bendazzi aveva praticato un buco nella tasca dell'abito talare, e quando passava vicino a un bambino con mamma, lasciava cadere apposta delle caramelle per godersi il litigio fra i due.
Mi piace iniziare così questa specie di diario, lasciando che qualche caramella scivoli ogni tanto dalla tasca bucata dei miei calzoni.