sabato 28 gennaio 2012

12.19.19.01.12 0Pax 1Eb

Niente da dire, il meccanismo di questi calendari è affascinante.

Però bisogna decidersi, approfondendo un pò la cosa mi accorgo che ci sono due possibili strade da seguire:

1) qualcuno fissa come data iniziale del calendario di lungo conto l'11 agosto 3114 a.C. del calendario gregoriano, (ossia il 6 settembre 3114 a.C. del calendario giuliano).
2) altri invece sostengono che la data iniziale di riferimento sia  il 13 agosto 3114 a.C. del calendario gregoriano, (ossia l'8 settembre 3114 a.C. del calendario giuliano);

E' evidente che una decisione si impone, anche perchè in base a quale delle due date si sceglie di partire, il conto dei giorni sarà diverso di 2 giorni in più o in meno a seconda della scelta fatta.

Oggi, per esempio, è il 28 gennaio 2012, quindi dovrò decidere se scriverla così:
12.19.19.1.10 o così 12.19.19.1.12
dove l'unica differenza fra le due sequenze stà nell'ultimo numero a destra, che è quello che conta i giorni.

Io, che non sono uno studioso, nè un astronomo, prendo atto del fatto che quest'anno, che è il 2012 ed è bisestile, il solstizio d'inverno cadrà il 21 dicembre alle ore 12,11 ora locale.
Ora, io non lo so se i Maya fossero davvero in grado di calcolare gli allineamenti degli astri con una precisione tale, ma a me fa comodo crederci, e così suppogno che abbiano iniziato a contare i giorni dall'11 agosto 3114 a.C. in modo da fare terminare il ciclo del lungo computo proprio il 21 dicembre 2012.

Quindi ho deciso che oggi, per me, secondo il calendario di lungo computo Maya, è il 12.19.19.1.12.
Che fatica.

Ma dicevamo che i calendari Maya sono tre.
Guardando l'Haab, il calendario civile, che è costituito da 365 giorni, accade che proprio oggi entriamo in un nuovo mese, denominato "Pax", di cui questo è il glifo corrispondente:


Ogni mese ha venti giorni ed essendo oggi il primo giorno di questo mese, scriveremo che è il giorno "0 Pax", questo perchè la numerazione dei giorni va da 0 a 19.
Domani sarà il giorno "1 Pax", dopodomani il "2 Pax" e così via.
Tutti i 18 mesi sono formati da 20 giorni, tranne l'ultimo, Uayeb, che ne ha solo 5.




Cosa Manca? ah, il calendario religioso, lo Tzolkin è vero.
Dunque, secondo questo calendario, che è un ciclo di 260 giorni, oggi siamo nel giorno che corrisponde all'abbinamento tra questo glifo chiamato Eb:


e il giorno (kin) 1, scriveremo quindi che secondo questo calendario oggi è il giorno "1 Eb".
La numerazione dei giorni qui si conta da 1 a 13, e associandola con i 20 nomi dei glifi si ottiene un ciclo di 260 giorni con nomi diversi (13 x 20 =260).
Domani sarà il giorno "2 Ben", dopodomani il "3 Ix" e così via.






Quindi, riassumento, la giornata di oggi 28/01/2012, a seconda di quale dei tre calendari Maya assumiamo, sarà così indicata:

Calendario Haab: 0 Pax

Calendario Tzolkin: 1 Eb

Calendario di lungo computo: 12.19.19.1.12

mercoledì 25 gennaio 2012

Calicanto - fiori d'inverno



Eccoli eccoli,
stanno fiorendo anche quest'anno, sono loro,
i "Calycanthus fragrans o praecox" o
"Calicanto invernale" che dir si voglia.

Beh?
Perchè tanto entusiasmo?



Ma come, ma dai,
ma se sono tra i pochi fiori che fioriscono in pieno inverno.
Uno spruzzo di colore in mezzo al giardino.
Un anticipo di primavera.
E invece l'aria intorno è ancora fredda, sissì, è ancora inverno, non ci sono dubbi;
questa mattina erano addirittura completamente ricoperti dalla "galaverna", ma loro se ne fregano,
fioriscono lo stesso.


Sono piccoli e poco appariscenti, a volte non si notano neppure in mezzo alle altre piante, se non fosse per quel profumo gradevolissimo che emanano.
A volte mi capita di passeggiare per i marciapiedi della città in questo periodo e di sentirne improvvisamente il profumo, allora sbircio curioso all'interno del giardino davanti al quale mi trovo in quel momento e allora la vedo, la pianta di Calicanto nascosta in un angolino.

Presto, un rametto fiorito da mettere sulla tavola.





domenica 22 gennaio 2012

Cenni sulle principali storie raccontate in quest'opera

Assieme alla vicenda del protagonista principale, Bartlebooth, si snodano tutta una serie di storie, da quelle appena accennate ed esaurite in poche righe, a quelle strutturate in più capitoli.



Questo è l'elenco delle principali storie che lo stesso Perec mette alla fine del libro, tra cui, naturalmente, c'è anche quella di Bartlebooth: 

(Il numero rimanda al capitolo in cui la storia appare generalmente per la
prima volta, ma non necessariamente nella sua interezza.)


Storia dell'acrobata che non volle più scendere dal trapezio, 13.
Storia dell'attore che simulò la propria morte, 34.
Storia dell'attrice australiana, 79.
Storia dell'ammiratore di Lomonosov, 60.
Storia dell'americana eccentrica, 55.
Storia dell'ex combattente delle Brigate internazionali, 45.
Storia dell'ex veterinario innamorato di una marsigliese baffuta, 85.
Storia dei vecchi portinai, 35.
Storia dell'antropologo incompreso, 25.
Storia dell'antiquaria e dei suoi orologi, 66.
Storia dell'archeologo che credeva troppo nelle leggende, 2.
Storia dell'archivista spagnolo, 80.
Storia dell'aviatore argentino, 55.
Storia dell'avvocato nevrastenico che abitava in Indonesia, 54.
Storia del bassotto Freischutz, 59.
Storia della bella italiana e del professore di chimica-fisica, 27.
Storia della bella polacca, 57.
Storia del gioielliere che fu assassinato tre volte, 50.
Storia del botanico frustrato, 72.
Storia del sellaio, di sua sorella e del cognato, 73.
Storia del sellaio di Szczyrk, 60.
Storia del pugile nero che non vinse mai un match, 40.
Storia della cantante russa, 5.
Storia del capitano che esplorò la Nuova Caledonia, 80.
Storia del "direttore dei lavori" che ebbe una mano strappata, 7.
Storia del capo magazziniere che raccolse le prove della sopravvivenza di Hitler, 91.
Storia del chimico tedesco, 62.
Storia delle cinque sorelle che fecero tutte successo, 89.
Storia del clown di Varsavia, 57.
Storia del conte di Gleichen, 10.
Storia di una coppia di servitori che si conobbe all'Esposizione universale, 83.
Storia del critico d'arte che cercò il capolavoro, 87.
Storia del cuoco innamorato del teatro, 55.
Storia della cuoca borgognona, 90.
Storia della signora dai fagiolini, 35.
Storia della signora che s'inventò delle nipoti, 89.
Storia della ballerina che abortì, 88.
Storia dell'arredatore costretto a demolire la cucina ch'era tutto il suo vanto 65.
Storia dell'ultima spedizione alla ricerca di Franklin, 44.
Storia dei due giganti dell'industria alberghiera, 87.
Storia dei due mercanti avari, 54.
Storia del diplomatico svedese, 31.
Storia della decana dello stabile, 20.
Storia dell'esperto autodidatta, 39.
Storia dell'artefice di puzzle, 8.
Storia della famiglia Gratiolet, 21.
Storia della cameriera che ebbe un figlio il cui padre non si conobbe mai 83.
Storia della moglie dell'artefice di puzzle, 53.
Storia della donna che fece apparire il diavolo ottantatré volte, 65.
Storia della donna che fondò una tipografia in Siria, 48.
Storia della donna che gestì una bisca, 21.
Storia dei festaioli che diedero un concerto mattutino, 92.
Storia della fidanzata catturata dai barbareschi, 78.
Storia della figlia del banchiere che voleva fare teatro, 55.
Storia della ragazza troppo grassa e della sua torre, 40.
Storia del cameriere di caffè, 61.
Storia del nonno che si faceva la barba, 71.
Storia dell'hamster privato del suo gioco prediletto, 81.
Storia dell'alto funzionario diffidente e della moglie vendicativa, 86.
Storia dell'uomo che acquistò il Vaso della Passione, 22.
Storia dell'uomo che credette di scoprire la sintesi del diamante, 14.
Storia dell'uomo che dipinse degli acquerelli e ne fece fare dei puzzle, 26.
Storia dell'uomo che depennava parole, 60.
Storia dell'uomo che saltò su una mina in Algeria, 58.
Storia dell'uomo che volle fare fortuna importando pelli, 21.
Storia di "Hortense", 41.
Storia dell'importatore di Lisbona e del suo corrispondente egiziano, 70.
Storia dell'industriale tedesco appassionato di cucina, 36.
Storia del jazzista mai contento, 75.
Storia della giovane coppia che acquistò una camera da letto, 98.
Storia della giovane coppia che abitava nella casa dei suoceri, 30.
Storia della ragazza madre che solo il nonno non rinnegò, 50.
Storia della ragazza che scappò di casa, 31.
Storia del giovanotto di Thonon che un giorno non fece più niente, 52.
Storia di Johann Sigismond Küsser, 7.
Storia di lady Forthright e del suo cocchiere, 4.
Storia del lord che nascondeva le sue passioni segrete sotto manie fittizie, 90.
Storia del liceale deportato, 43.
Storia del magistrato e della moglie che diventarono svaligiatori, 83.
Storia di Mark Twain, 94.
Storia del medico che ebbe un paziente avvelenato per ordine di William Randolph Hearst, 59.
Storia del medico che fu abbindolato, 96.
Storia del Messaggero dell'Imperatore, 78.
Storia del regista che disprezzava i grandi classici, 75.
Storia del missionario la cui moglie insegnava ginnastica, 72.
Storia del motociclista scalognato, 75.
Storia dell'ufficiale che abbandonò la sua pattuglia, 65.
Storia del pananarchico scampato, 73.
Storia del padrone taccagno, 61.
Storia del pittore che dipinse lo stabile, 17.
Storia del pittore che praticava la necrofilia, 97.
Storia della ragazzina dall'immaginazione inquietante, 82.
Storia del piccolo tunisino, 58.
Storia del poeta Jean-Baptiste Rousseau, 22.
Storia del ritrattista e dei suoi sistemi, 59.
Storia del produttore televisivo, 13.
Storia del professore di storia che fu addetto culturale nelle Indie, 46.
Storia del proprietario che suonava il piffero e ascoltava la radio, 95.
Storia dei quattro giovani bloccati in ascensore, 38.
Storia del ricco appassionato di opere, 52.
Storia della setta dei Tre Uomini Liberi, 3.
Storia del sergente maggiore che morì in Algeria, 35.
Storia del soldatino più decorato di tutta l'Oceania, 79.
Storia dello scheletro monco, 67.
Storia dei tre balordi assassinati, 84.
Storia del violinista geloso, 95.
Storia del vecchio domestico che accompagnò il padrone intorno al mondo, 15.

giovedì 12 gennaio 2012

Capitolo LXX - La ricostruzione dei puzzle

La sala da pranzo di Bartlebooth in pratica non serve ormai più. È una stanza rettangolare e severa, dal pavimento scuro, con alte tende di velluto goffrato e una grande tavola di palissandro coperta da una tovaglia di lino damascato. Sulla lunga credenza in fondo alla stanza sono posate otto scatole cilindriche che portano tutte l'effigie di re Faruk.
Mentre, sul finire del millenovecentotrentasette, poco prima d'iniziare il suo lungo giro dell'Africa, si trovava a Capo San Vincenzo, nel sud del Portogallo, Bartlebooth conobbe un importatore di Lisbona il quale, saputo che l'inglese aveva l'intenzione di recarsi prossimamente a Alessandria, gli affidò uno scaldapiedi elettrico pregandolo vivamente di consegnarlo al suo corrispondente egiziano, un certo Farid Abu Talif. Bartlebooth annotò con cura le referenze del mercante sulla sua agenda; quando nella tarda primavera 1938 arrivò in Egitto, s'informò su quella degna persona e gli fece pervenire il regalo del portoghese. Benché la temperatura fosse già anche troppo clemente perché il bisogno di uno scaldapiedi elettrico si facesse realmente sentire, Farid Abu Talif fu così contento del dono che chiese a Bartlebooth di recapitare al portoghese, a titolo di perizia, otto scatole di caffè che aveva trattato con una tecnica chiamata "ionizzazione", tecnica destinata, spiegò, a prolungarne quasi indefinitamente il sapore. Bartlebooth ebbe un bel precisare che non avrebbe certamente più avuto l'occasione di rivedere l'importatore per qualcosa come diciassette anni, l'egiziano s'incaponì, aggiungendo che l'esperimento sarebbe risultato ancora più probante se, dopo tutto quel tempo, il caffè avesse conservato anche solo un pò del suo aroma.
Negli anni successivi quelle scatole furono oggetto di grane senza fine. A ogni passaggio di frontiera, Bartlebooth e Smautf dovevano aprire le scatole e permettere ai doganieri sospettosi di annusare, assaggiare in punta di lingua e qualche volta farsi perfino un caffè per rendersi ben conto che non si trattasse di un nuovo tipo di droga. Sul finire del millenovecentoquarantatré, le scatole, piuttosto ammaccate, si ritrovarono vuote, ma Smautf insistette perché Bartlebooth non le buttasse via; se ne servì per riporre spiccioli vari o le conchiglie rare che gli capitava di raccogliere sulle spiagge, e quando rientrarono in Francia, come ricordo del loro lungo viaggio, le mise sulla credenza della sala da pranzo dove Bartlebooth le lasciò.
 
 

Ogni puzzle di Winckler era per Bartlebooth un'avventura nuova, unica, irripetibile. Ogni volta, dopo avere rotto i sigilli che chiudevano la scatola nera della signora Hourcade e sparpagliato sul panno della sua tavola, sotto la luce senz'ombra della lampada scialitica, i settecentocinquanta pezzetti di legno che era diventato il suo acquerello, aveva la sensazione che tutta l'esperienza accumulata in cinque, dieci o quindici anni non gli sarebbe servita a niente, che avrebbe avuto come sempre a che fare con delle complicazioni, delle difficoltà assolutamente insospettabili.
Ogni volta si riprometteva di procedere con disciplina e con metodo, di non buttarsi sui pezzi, di non cercare di ritrovare immediatamente nel suo acquerello spezzettato questo o quell'elemento di cui credeva di serbare un ricordo intatto: no, questa volta non si sarebbe lasciato travolgere dalla passione, dal sogno o dall'impazienza, ma avrebbe costruito il suo puzzle con rigore cartesiano: dividere i problemi per risolverli meglio, affrontarli nell'ordine, eliminare le combinazioni improbabili, eseguire le mosse come un giocatore di scacchi che edifica piano la sua strategia ineluttabile e irrimediabile: avrebbe cominciato col mettere tutti i pezzi al diritto, poi ne avrebbe cavato tutti quelli che presentassero un bordo rettilineo componendo la cornice del puzzle. Poi avrebbe esaminato tutti gli altri, a uno a uno, sistematicamente, prendendoli in mano, rigirandoli parecchie volte in tutti i versi; avrebbe isolato tutti quelli sui quali fosse più chiaramente visibile un disegno o un particolare, avrebbe classificato i restanti secondo il colore, e all'interno di ogni colore secondo la sfumatura, e ancor prima di avere iniziato a incastrare i pezzi centrali, avrebbe così già superato trequarti dei tranelli preparati da Winckler. Il resto sarebbe stato solo questione di pazienza.
Il problema principale era rimanere neutrali, obiettivi, e soprattutto disponibili, e cioè senza alcun pregiudizio. Ma proprio qui Gaspard Winckler tendeva le trappole. Via via che Bartlebooth prendeva confidenza con i pezzetti di legno, cominciava a percepirli secondo un asse privilegiato, come se i pezzi si polarizzassero, si pietrificassero in un modo di percezione che li assimilava, con una irresistibile seduzione, a immagini, forme e figure familiari: un cappello, un pesce, un uccello straordinariamente preciso, con lunga coda, lungo becco ricurvo e gonfio alla base, come ricordava di averne visti in Australia, oppure, appunto, la frastagliatura dell'Australia, o l'Africa, l'Inghilterra, la penisola iberica, lo stivale italiano, eccetera. Gaspard Winckler si sbizzarriva in simili pezzi e come in quei puzzle per bambini di legno spesso, a volte si ritrovava con tutto un serraglio, un pitone, una marmotta e due elefanti perfettamente formati, uno africano (con lunghe orecchie) e l'altro asiatico, oppure un Charlot (bombetta, bastoncino e gambe ad arco), un profilo di Cyrano, uno gnomo, una strega, una donna col cappello a cono, un saxofono, un tavolino di caffè, un pollo arrosto, un astice, una bottiglia di champagne, la ballerina dei pacchetti di Gitanes o l'elmo alato delle Gauloises, una mano, una tibia, un fiore di giglio, vari frutti, o un alfabeto quasi completo con pezzi a forma di J, di K, di L, di M, di W, di Z, di X, di Y e di T.
A volte, tre, quattro, o cinque di quei pezzi s'incastravano con una facilità sconcertante; poi, si bloccava tutto: il pezzo mancante faceva venire in mente a Bartlebooth una specie di India nera cui fosse rimasta attaccata Ceylon (ora, l'acquerello raffigurava precisamente un piccolo porto della costa di Coromandel). Ed era solo parecchie ore dopo, quando non erano parecchi giorni, che Bartlebooth si rendeva conto che il pezzo adeguato non era nero ma grigio piuttosto chiaro - discontinuità di colore che si sarebbe dovuta prevedere se Bartlebooth non si fosse lasciato per così dire trascinare dal suo slancio - e aveva esattamente la forma di quello che fin dall'inizio si era ostinato a chiamare la "perfida Albione", a patto d'imprimere a quella piccola Inghilterra una rotazione di novanta gradi in senso orario. Indubbiamente lo spazio vuoto non somigliava alle Indie più di quanto il pezzo che doveva riempirlo non somigliasse all'Inghilterra; l'importante, in questi casi, era che fintantoché continuava a vedere in questo o quel pezzo un uccello, un ometto, un blasone, un elmo puntuto, un cane la-voce-del-padrone o un Winston Churchill, non poteva certo scoprire come quello stesso pezzo si collegasse agli altri senza essere appunto rovesciato, rigirato, decentrato, desimbolizzato, e in una parola "de-formato".
L'essenziale delle illusioni di Gaspard Winckler si basava su questo principio: obbligare Bartlebooth a investire lo spazio vuoto di forme apparentemente anodine, evidenti, facilmente descrivibili - per esempio un pezzo del quale - qualunque ne fosse peraltro la configurazione, due lati dovevano obbligatoriamente formare tra loro un angolo retto - e nello stesso tempo forzare in un senso completamente diverso la percezione dei pezzi destinati a riempirlo sul serio. Come in quella caricatura di W.E.Hill che raffigura "nello stesso tempo" una giovane donna e una vecchia, l'orecchio, la guancia, la collana della giovane essendo rispettivamente un occhio, il naso e la bocca della vecchia, con la vecchia di profilo in primo piano e la giovane di trequarti schiena inquadrata a mezza spalla, Bartlebooth doveva , per trovare quell'angolo a dire il vero quasi ma non del tutto retto, smettere di considerarlo la punta di un triangolo, e cioè ribaltare la sua percezione, vedere "diversamente" quello che ingannevolmente l'altro gli faceva vedere e, per esempio, scoprire che la pseudo Africa dai riflessi gialli che cincischiava senza sapere dove andava messa occupava esattamente lo spazio che credeva di dover riempire con una specie di quadrifoglio dai toni color malva spenta che cercava dappertutto e non trovava.


La soluzione era evidente, evidente quanto il problema era parso insolubile fino a quando lo aveva risolto, proprio come in una definizione di parole incrociate - la sublime "vecchie e ... nove" dieci lettere,di Robert Scipion, per esempio - si va a cercare chissa dove non c'è quello che è enunciato con grande precisione nella definizione stessa, consistendo in realtà tutto il lavoro nell'operare quello "spostamento" che dà al pezzo, alla definizione, il suo "senso" e rende contemporaneamente fastidiosa e inutile qualsiasi spiegazione. (*)
Nel caso particolare di Bartelbooth, il problema si complicava per il fatto stesso che era l'autore degli acquerelli iniziali. Ne aveva accuratamente distrutto schizzi e minute e non aveva ovviamente fatto fotografie né appunti, ma prima di dipingerli aveva guardato questi paesaggi marini con un'attenzione abbastanza intensa perchè vent'anni dopo gli bastasse leggere sulle brevi note che Gaspard Winckler incollava all'interno della scatola "Isola di Skye, Scozia, marzo 1936" o "Hammamet, Tunisia, febbraio 1938", per fargli venire in mente un marinaio dal maglione giallo con un tom o'shanter sulla testa, o la macchia rossa e oro del vestimento di una donna berbera che lavava la lana in riva al mare, o una nube lontana su una collina, leggera come un uccello: non proprio il ricordo stesso - era infatti più che evidente come quei ricordi fossero esistiti solo per essere acquerelli prima, e puzzle dopo e poi ancora niente - ma ricordi di immagini, di tratti di matita, colpi di gomma, tocchi di pennello.
Quasi tutte le volte Bartlebooth cercava quei segni privilegiati. Ma era illusione volersi appoggiare su loro: talvolta, Gaspard Winckler riusciva a farli sparire; quella macchiolina rossa e gialla, per esempio, la frammentava in una miriade di pezzi da cui il giallo e il rosso parevano inspiegabilmente assenti, fusi, confusi in quei traboccamenti minuscoli, in quegli schizzi quasi microscopici, quelle piccole sbavature di pennello e straccio che l'occhio non era assolutamente in grado di percepire guardando l'insieme del quadro ma che i suoi colpi di sega paziente erano riusciti a esagerare esasperatamente; più spesso, e in modo molto più perfido, come se avesse intuito che quella data forma si era incrostata nella memoria di Bartlebooth, lasciava tale e quale, in un unico pezzo, quella nuvola, quella figura, quella macchia colorata che, nude all'intorno, diventavano inutilizzabili, ritagli uniformi, monocromi, delle quali non si vedeva in via assoluta cosa potesse circondarle.
Le astuzie di Winckler iniziavano con gli orli, molto prima di questi stadi già avanzati. Come nei puzzle classici, i suoi puzzle avevano sottili orli rettilinei e bianchi, e uso e ragione volevano che, come nel gioco del go, proprio dagli orli si cominciasse a giocare.
E' anche vero che un giorno, esattamente come quel giocatore di go che pose la prima pietra proprio al centro del go-ban strabiliando l'avversario abbastanza a lungo da vincerlo, Bartlebooth, preso da un intuizione improvvisa, cominciò uno dei puzzle a partire dal centro - le macchie gialle di un tramonto luccicante sul Pacifico (poco distante da Avalon, Santa Catalina Island, California, novembre 1948) - e quella volta ce la fece in tre giorni invece che in due settimane. Ma in seguito perse quasi un intero mese quando credette di poter rifare il colpo.
La colla azzurra che adoperava Gaspard Winckler a volte usciva un pochino dal foglio bianco intercalato che costituiva il bordo del puzzle, lasciando una frangia azzurrina quasi impercettibile. Per molti anni Bartlebooth usò quella frangia come una specie di garanzia: se due pezzi che gli sembravano perfettamente adattabili presentavano frange che non coincidevano, esitava a farli incastrare; e invece era tentato di accostare due pezzi che, a prima vista, non avrebbero mai dovuto toccarsi, ma le cui frange azzurrine offrivano una continuità perfetta e spesso accadeva che un pò più tardi andassero effettivamente bene così.
Solo quando quell'abitudine era già presa, e sufficientemente radicata perchè il liberarsene diventasse spiacevole, Bartlebooth si rese conto che quei "casi fortunati" potevano benissimo essere a lovo volte trappole, e che l'autore dei puzzle aveva lasciato, su un centinaio di giochi, quella minima traccia a fare da indizio - o esca piuttosto - solo per meglio imbrogliare poi.
Era questa, da parte di Gaspard Winckler, un'astuzia quasi primaria, semplice entrata in argomento. Che due o tre volte agitò Bartlebooth per qualche ora e non ebbe effetti più durevoli. Ma era alquanto tipica dello spirito con cui Gaspard Winckler concepiva i suoi puzzle intendendo suscitare in Bartlebooth uno smarrimento ogni volta rinnovato. I metodi più rigorosi, la schedatura dei settecentocinquanta pezzi, l'impiego di calcolatori o di qualsiasi altro sistema scientifico o oggettivo, non sarebbero certo serviti granchè. Gaspard Winckler aveva evidentemente considerato la fattura dei cinquecento puzzle come un tutto, come un gigantesco puzzle di cinquecento pezzi ogni pezzo del quale fosse stato un puzzle di settecentocinquanta pezzi, ed è chiaro che ciascuno di loro esigeva per la sua soluzione un approccio, uno spirito, un metodo, un sistema diversi.
A volte Bartlebooth risolveva d'istinto, come per esempio quando aveva, senza un motivo apparente, attaccato dal centro; a volte lo faceva per deduzione anche, basandosi sui puzzle precedenti; ma, quasi sempre, ci lavorava tre giorni con l'impressione tenace del perfetto imbecille: i bordi non erano neanche finiti, , quindici piccole Scandinavie accostate fin dall'inizio disegnavano la sagoma scura di un uomo ammantellato che saliva tre gradini di un molo, mezzo girato verso il pittore (Launceston, Tasmania, ottobre 1952), e da parecchie ore non aveva più messo un solo pezzo.
Bartlebooth trovava in quel senso d'impasse, di vicolo cieco, l'essenza stessa della sua passione: una specie di torpore, di rimuginìo, di abbrutimento smorto alla ricerca di qualcosa d'informe di cui riusciva solo a biascicare i contorni: un becco forse adattabile alla piccola ferita concava, una cosa così, un piccolo oggetto giallastro, un pezzettino con denti rotondi, dei piccoli punti arancioni, il pezzo d'Africa, la porzione di costa adriatica, brontolii confusi, rumori di fondo di una fantasticheria maniacale, sterile, infelice.
Talvolta allora, al termine di quelle ore di inerzia malinconica, lo prendevano accessi improvvisi di rabbia terribile, rabbie tremende e inspiegabili quanto, da Riri, quelle di Gaspard Winckler quando faceva la sua partita di jacquet con Morellet. Quell'uomo che, per tutti nello stabile, era il simbolo stesso della flemma britannica, della discrezione, della cortesia, della gentilezza, dell'urbanità più squisita, quell'uomo che nessuno aveva mai udito dire una parola più forte dell'altra, si lasciava allora prendere da furori di una violenza tale che pareva essersela covata dentro per anni. Una sera spaccò in due con un unico pugno un tavolino con il piano di marmo. Un'altra volta, dopo che Smautf aveva commesso l'imprudenza di entrare, come faceva tutte le mattine, con la prima colazione - due uova alla coque, un succo d'arancia, tre toast, un tè con latte, qualche lettera e tre quotidiani: Le Monde, il Times e l'Herald - Bartlebooth sbattè via il vassoio con una forza tale che la teiera, espulsa quasi verticalmente con la velocità di una palla di fucile, fracassò il vetro spesso della lampada scialitica prima di rompersi anch'essa in mille pezzi che ricaddero sul puzzle (Okinawa, Giappone, ottobre 1951). Bartlebooth ci mise otto giorni a recuperare i settecentocinquanta pezzi, che la vernice protettiva di Gaspard Winckler aveva salvato dal tè bollente, e indubbiamente quella crisi di furore non risultò inutile, perchè riordinando i suoi pezzi scoprì finalmente come andavano messi.
Più spesso, per fortuna, al termine di quelle ore di attesa, dopo aver attraversato tutti gli stadi dell'ansia e dell'esasperazione controllate, Bartlebooth raggiungeva una specie di trance, una stasi, una sorta d'inebetimento tutto asiatico, forse analogo a quello che cerca l'arciere: un oblìo profondo del corpo e del bersaglio da colpire, una mente vuota, assolutamente vuota, aperta, disponibile, un'attenzione intatta ma libera di librarsi al di sopra delle vicissitudini dell'esistenza, delle contingenze del puzzle e dei tranelli dell'artigiano. In quei momenti, Bartlebooth vedeva senza guardarli i sottili intagli del legno incastrarsi esattamente uno nell'altro e poteva, prendendo due pezzi a cui non aveva mai fatto caso o che forse aveva giurato per ore non potessero materialmente mai riunirsi, comporli in un amen.
Quella sensazione di grazia durava a volte vari minuti e Bartlebooth aveva allora l'impressione di essere un veggente: percepiva tutto, capiva tutto, avrebbe potuto veder crescere l'erba, il fulmine colpire l'albero, l'erosione modellare le montagne come una piramide lentissimamente consumata dall'ala di un uccello che la sfiora: giustapponeva i pezzi a gran velocità, senza sbagliarsi mai, ritrovando sotto tutti i particolari e gli artifici che intendevano mascherarli, quest'unghiata minuscola, quell'impercettibile filo rosso, quest'altra tacca dagli orli neri che gli avrebbero, in ogni momento, indicato la soluzione se solo avesse avuto occhi per vedere: in pochi attimi, sull'onda di quell'ebbrezza esaltante e sicura, una situazione immobile da ore o da giorni, e della quale non concepiva neanche più lo svolgimento, si modificava da così a così: spazi interi si saldavano di colpo, il cielo e il mare ritrovavano il loro posto, dei tronchi ridiventavano rami, degli uccelli, onde, delle ombre, goemone. (**)
Quegli attimi privilegiati erano rari quanto inebrianti ed effimeri quanto sembravano efficaci. Ben presto Bartlebooth ridiventava un sacco di sabbia, una massa inerte inchiodata al tavolo di lavoro, un ebete dagli occhi spenti, incapaci di vedere, che aspettava per ore senza capire cosa aspettava.
Non aveva né fame né sete, né caldo né freddo; poteva starsene senza dormire più di quaranta ore, senza far altro che prendere a uno a uno i pezzi non ancora riuniti, guardarli, rigirarli e rimetterli giù senza neanche tentare di sistemarli, come se qualsiasi tentativo fosse inesorabilmente votato al fallimento. Una volta rimase seduto 62 ore di fila - dal mercoledì mattina alle otto al venerdì sera alle dieci - davanti a un puzzle incompiuto che raffigurava le lunghe ghiaie di Elsinore : frangia grigia fra un mare grigio e un cielo grigio.
Un'altra volta, nel millenovecentosessantasei, ricompose nelle prime tre ore più di due terzi del puzzle che toccava in quei quindici giorni: la stazioncina balneare di Rippleson, in Florida. Poi, nelle successive due settimane, tentò invano di finirlo: aveva davanti un pezzetto di spiaggia quasi deserto, con un ristorante a un capo della passeggiata e delle rocce di granito all'altro capo; in lontananza, sulla sinistra, tre pescatori caricavano una scialuppa di reti color alga bruna; al centro una donna di una certa età vestita di un abito a pallini e calzata di un cappello da carabiniere di carta, sferruzzava seduta sui ciottoli; accanto a lei, supina sopra un tappeto di fibre vegetali, una ragazzina con una collana di conchiglie mangiava banane seccate; all'estrema destra, un bagnino, vestito di un vecchio battledress, raccoglieva ombrelloni e sdraio; sullo sfondo una vela trapezoidale e due isolotti spezzavano la linea dell'orizzonte. Mancavano un pò di mare ondeggiante e un pezzetto di cielo a pecorelle: duecento pezzi dello stesso azzurro con minuscole variazioni bianche, ciascuno dei quali richiese più di due ore di lavoro prima di trovare il suo posto.
Fu una delle poche volte in cui non gli bastarono due settimane per terminare un puzzle. Generalmente, fra ebbrezze e abbattimenti, esaltazioni e disperazioni, attese febbrili e certezze effimere, il puzzle si completava nei tempi previsti, incamminandosi verso l'ineluttabile fine in cui, risolto ogni problema, restava ormai solo un onesto acquerello, di fattura sempre un pò scolastica, raffigurante un porto di mare. Via via che lo aveva saziato, nella frustrazione o nell'entusiasmo, il suo desiderio si andava spegnendo, lasciandogli come unico esito l'apertura di un'altra scatola nera.

(*) Sarei curioso di vedere il testo originale in francese: il gioco di Parole di Scipion si traduceva originariamente con "nonagenarie", che ha 11 lettere, nella traduzione del testo in italiano invece probabilmente è stato sostituito da "novantenni", che ne ha 10.
(**) Scritto così nella mia edizione italiana BUR del 1991.

mercoledì 11 gennaio 2012

I calendari Maya

Epperò sti Maya.

Ricordo che andai qualche anno fa a una mostra a Palazzo Grassi a Venezia su di loro, era il 1999, e non c'era ancora tutto l'interesse che si percepisce in questo periodo circa la fine del loro calendario di lungo computo.

Perchè loro, i Maya, di calendari ne avevano ben tre:

- il calendario rituale o divinatorio che durava 260 giorni ed era chiamato tzolkin (o conto dei giorni), composto da due cicli minori, una "settimana" di venti giorni con ordine fisso (imix, ik, akbal, kan, chiccan, cimi, manik, lamat, muluc, oc, chuen, eb, ben, ix, men, cib, caban, etznab, cauac e ahau) e una sequenza di numeri da 1 a 13 che servivano da coefficienti per i giorni. La combinazione di questi due cicli, 20x13, implicava che un dato giorno non tornasse ad avere lo stesso coefficiente se non dopo 260 giorni;

- il calendario più simile al nostro gregoriano, era l'haab di 365 giorni, suddiviso in 18 mesi di venti giorni ciascuno, ai quali si aggiungeva un breve mese intercalare di 5 giorni, noti anche come "giorni senza nome" o "giorni perduti" o "sfortunati" (wayeb);

- per registrare eventi storici che necessitavano di periodi più lunghi di un anno solare, i Maya svilupparono il calendario d'era, meglio conosciuto come sistema del conto lungo, che copriva un periodo di 5125 anni, e comprendeva così tutta la storia maya. La base di questo calendario era l'anno di 360 giorni, il tun, un'unità vigesimale che era divisa in 18 uinal di 20 giorni. Venti tun erano raggruppati in un'unità detta katun e venti katun formavano un'unità detta baktun. Un'era era composta da 13, e non 20 baktun e costituiva la base per una rigida misurazione del tempo. L'attuale era Maya ha avuto inizio l'11 agosto del 3114 a.C. (0.0.0.0.0) e finirà il 21 dicembre dell'anno 2012 (13.0.0.0.0), nel giorno del solstizio invernale.


Oggi è l'11 gennaio 2012.

A quanto pare, in questo momento, secondo il calendario haab, siamo nel mese Muwan, di cui questo è il glifo corrispondente:





mentre secondo il calendario di lungo computo oggi è il 12.19.19.0.11
dove, partendo da sinistra: 12 sono i baktun, 19 i katun, 19 i tun, 0 gli uinal e 15 i kin.

Per chi avesse voglia di approfondire il metodo di calcolo, può trovare una spiegazione semplice e ben fatta in questo link: Calcolo calendario Maya



N.B. Le informazioni che ho riportato sopra sono state desunte, in buona parte, dalla guida edita da Bombiani per la Mostra che si tenne a Palazzo Grassi -Venezia, dal 06-09-1998 al 16-5-1999.

martedì 10 gennaio 2012

Gaspard Winckler

11, rue Simon Crubellier, Parigi 17

Gli abitanti del condominio di cui si parla nel libro non sono necessariamente coinvolti fra di loro, e molte delle storie che vengono raccontate nel romanzo esauriscono il loro fascino lì, senza collegarsi a nessuna delle altre disseminate qua e là fra le pagine.
Ma un rapporto particolare lega fra di loro almeno tre dei personaggi che incontriamo nella lettura del libro:
Percival Bartlebooth, Serge Valene e Gaspard Winckler.

Il primo, l'eccentrico miliardario, abbiamo già iniziato a conoscerlo, il secondo è il pittore che per dieci anni gli ha insegnato la tecnica dell'acquerello ed il terzo è l'artigiano che ha trasformato ogni dipinto in un puzzle di legno di 750 pezzi ritagliato a mano.

Per trovare l'artefice dei suoi puzzle, Bartlebooth mise un annuncio su Le Jouet francais e Toy Trader, chiedendo ai candidati di mostrargli un campione di quattordici centimetri per nove tagliato in duecento pezzi; ricevette dodici risposte, quasi tutte banali e senza attrattive, le solite cose tipo "Serata in un cottage inglese" e simili, con i soliti mille particolari di colore locale: la vecchia lady con l'eterno vestito di seta nera e l'eterna spilla esagonale di quarzo, il maggiordomo che porta il caffè sopra un vassoio, il mobilio Regency e il ritratto dell'antenato, un gentleman con i piccoli favoriti, in marsina rossa dell'epoca ultime diligenze, pantaloni bianchi, stivali coi risvolti, cilindro grigio, giannetta in mano, il tavolinetto coperto da un tappetino di pezze inserite, la tavola accanto al muro con i numeri del Times in bella mostra, il grande tappeto cinese a fondo azzurro cielo, il generale in pensione - riconoscibile dai capelli grigi tagliati a spazzola, dai corti baffi bianchi, dal colorito rossastro e dalla sfilza di decorazioni - che accanto alla finestra consulta il barometro con faccia arcigna, il giovanotto in piedi davanti al camino immerso nella lettura del Punch, eccetera. Un altro campione, raffigurante solo uno splendido pavone che faceva la ruota, piacque a Bartlebooth quel tanto da convocare l'autore, ma questo - un principe russo emigrato che viveva alquanto miseramente al Raincy - gli sembrò troppo vecchio per i suoi progetti.
Il puzzle di Gaspard Winckler aveva tutti i requisiti richiesti. Winckler lo aveva tagliato da una specie di illustrazione d'Epinal, firmata con le iniziali M.W. e intitolata "L'ultima Spedizione alla Ricerca di Franklin"; nelle prime ore in cui fu impegnato a risolverlo, Bartlebooth credeva si trattasse di semplici variazioni sul bianco; di fatto, il corpo principale del disegno raffigurava una nave, la Fox, stretta nella banchisa: in piedi vicino al timone coperto di ghiaccio, imbacuccati nelle loro pellicce grigio chiare da cui emergono a stento le facce terree, due uomini, il capitano M'Clintock, capo della spedizione, e il suo interprete d'inupik, Carl Petersen, alzano le braccia verso un gruppo di esquimesi che sbuca da una fitta nebbia che ricopre l'orizzonte, e viene loro incontro su delle slitte trainate da cani; ...
Gaspard Winckler era allora appena arrivato a Parigi. Aveva solo ventidue anni. Del contratto che fece con Bartlebooth non si riseppe mai niente; qualche mese dopo però, venne ad abitare in rue Simon-Crubellier con la moglie Marguerite; che era miniaturista: era stata lei a dipingere il guazzo usato da Winckler per il puzzle di prova.
Per quasi due anni, Winckler badò solo a sistemarsi il laboratorio - imbottendo la porta e facendo tappezzare le pareti di sughero -, a ordinare gli attrezzi, a preparare il materiale, a fare certe prove. Nient'altro. Poi alla fine del millenovecentotrentaquattro, Bartlebooth e Smautf si misero in viaggio, e tre settimane dopo Winckler riceveva dalla Spagna il primo acquerello. Da quel momento si susseguirono ininterrottamente per vent'anni, in ragione di due al mese di media. Non ne andò mai perso uno, neanche in pienissma guerra, quando talvolta un secondo attaché dell'ambasciata svedese li recapitava di persona.


Il primo giorno Winckler metteva l'acquerello sopra un cavalletto accanto alla finestra e lo guardava senza toccarlo. Il secondo giorno, lo incollava a un supporto - compensato di pioppo - un tantino più grande del dipinto. Usava una colla speciale, di un bel colore azzurro, che si preparava da solo, e inseriva fra la Whatman e il legno un sottile foglio di carta bianca che doveva facilitare l'ulteriore separazione dell'acquerello ricostituito dal compensato, e che sarebbe stato il bordo del futuro puzzle. Poi spalmava tutta la superficie con una vernice protettiva che applicava mediante uno di quei pennelli larghi e piatti chiamati pennellesse. Per tre o quattro giorni, allora, studiava l'acquerello con la lente, oppure, rimettendolo sul cavalletto, gli sedeva di fronte per ore, alzandosi ogni tanto per esaminarne un particolare da vicino, o girando in tondo come una pantera in gabbia.
La prima settimana trascorreva in quest'unica osservazione minuziosa e inquieta. Dopo di che, le cose si mettevano a filare velocemente: Winckler metteva sull'acquerello un calco sottilissimo e, in pratica, senza staccare mai la mano, disegnava tagli e frastagliature. Il resto era solo una questione di tecnica, una tecnica delicata e lenta, che richiedeva un'abilità scrupolosa, ma dove l'invenzione non c'entrava più: partendo dal calco, l'artigiano fabbricava una specie di stampo - prefigurazione della griglia a giorno che, vent'anni dopo, Morellet avrebbe usato per ricomporre l'acquerello - che gli permetteva di guidare con efficacia la sua sega a due tempi e collo d'oca. La levigatura di ogni singolo pezzo con cartavetro e poi con pelle di daino, qualche ultimissima rifinitura, si prendevano gli ultimi giorni della quindicina. Il puzzle veniva deposto in una delle scatole nere dal nastro grigio della signora Hourcade; un'etichetta rettangolare, indicante luogo e data in cui l'acquerello era stato dipinto


* FORT-DAUPHIN (MADAGASCAR)  12 GIUGNO 1940 *


oppure


* PORTO SAID (EGITTO) 31 DICEMBRE 1953 *


veniva incollata all'interno, sotto il coperchio, e la scatola, numerata e sigillata, andava a raggiungere i puzzle già pronti in una cassaforte della Société Générale; l'indomani o qualche giorno dopo, il postino recapitava un altro acquerello.




Durante i vent'anni in cui Bartlebooth viaggiò per il mondo per dipingere le cinquecento marine, ogni due settimane incaricò il suo maggiordomo Smautf di imballare l'acquerello appena terminato nella carta di seta, in una busta semirigida avvolta in carta kraft, legato e sigillato con cura. Dopo avere individuato e registrato il luogo del dipinto, il plico veniva spedito tramite il servizio postale a:



Vent'anni fa, nel millenovecentocinquantacinque, Winckler finì, come previsto, l'ultimo dei puzzle ordinatigli da Bartlebooth. Abbiamo tutti i motivi di supporre che nel contratto firmato con il miliardario fosse inserita una clausola esplicita riguardante il fatto che non avrebbe dovuto fabbricarne altri, ma, in ogni caso, è probabile che non ne avesse più voglia.


Valene aveva la camera proprio sotto il laboratorio di Winckler, e per quasi quarant'anni le sue giornate erano state accompagnate dal tenue rumore delle lime minuscole dell'artigiano, del ronzìo quasi impercettibile della sega a due tempi, dallo scricchiolìo del pavimento, dal sibilo del bollitore quando, non per prepararsi un pò di tè, ma per fabbricare questa o quella colla o sostanza necessaria ai suoi puzzle, metteva a bollire l'acqua. Oramai, da quando aveva smontato il banco da lavoro e messo via gli attrezzi, non entrava mai in quella stanza. ...


Il 29 ottobre 1973 Gaspard Winckler è morto, ma la lunga vendetta che ha ordito con tanta pazienza, con tanta minuzia, non si è ancora compiuta.